Il brand activism è uno dei modi attraverso i quali le aziende possono mostrare la propria attenzione per la realtà che le circonda e per i temi di sostenibilità ambientale, sociale ed economica: ecco in che cosa consiste
Cosa vuol dire brand activism? Si definisce brand activism il coinvolgimento che un’azienda dimostra verso una o più cause (sociali, ambientali, politiche o economiche) che si intersecano con il core business o, in alcuni casi, lo trascendono; lo vedremo meglio più avanti. Ciò che per noi consumatori oggi è quasi scontato, ossia che le aziende devono dimostrare interesse per la realtà che le circonda e non siano esclusivamente impegnate sul produrre e vendere, non è affatto scontato: non è sempre stato così.
Inoltre, è importante ricordare che essere brand activist significa passare da slogan ad azioni concrete, trasformare i valori aziendali includendo il tema della sostenibilità e valori del bene comune, determinando così reali cambiamenti nel mondo circostante.
All’origine del brand activism
Possiamo segnare una linea di demarcazione più o meno sul finire degli anni ‘90, con la nascita dei movimenti e della coscienza no global, come risposta a dinamiche nate nel secolo scorso. Dalla fine della guerra fredda, la caduta delle barriere economiche e la delocalizzazione dei comparti produttivi, e di conseguenza il rafforzamento dei monopoli e delle multinazionali, avevano gettato le basi per un mondo globalizzato, in cui le multinazionali potevano spostare senza troppi impedimenti le fasi della loro produzione in Paesi cosiddetti del terzo mondo, dove creavano sfruttamento del capitale umano, inquinamento e iniquità. Questo per abbassare costantemente i costi di produzione e offrire ai consumatori prezzi sempre più stracciati, in una corsa sfrenata verso una bulimia di produzione e consumo.
Il movimento no global era un movimento molto eterogeneo, in cui confluivano diverse istanze sociali, ma in generale non accettava che le multinazionali spadroneggiassero, perseguendo il guadagno a spese del pianeta e delle persone. Oltre alle manifestazioni di protesta, il movimento proponeva anche una lotta dal basso, con il boicottaggio (come consumatori) dei prodotti delle aziende meno virtuose (all’epoca colossi come Nestlè, Mac Donald’s e Coca Cola erano nell’occhio del ciclone).
Tutto questo ha portato, nel corso degli anni, ad una rinnovata attenzione a temi di sostenibilità sociale, ambientale ed economica da parte delle aziende stesse. Soprattutto le generazioni più giovani consumatori, in particolare millennial e generazione Z, si aspettano che le aziende prendano posizione sui grandi temi di interesse generale e, anche sulla base dei comportamenti del brand, fanno le loro scelte d’acquisto.
Dalla fine degli anni 90 ad oggi
Del 1999 è anche il Cluetrain Manifesto, scritto da Levine, Locke, Weinberger e Searls .
Si tratta di un insieme di 95 tesi che sono appunto un manifesto o un invito all’azione per le imprese che operano nel mercato interconnesso, ossia in una realtà in cui Internet cominciava a prendere piede in modo importante, cambiando sia le coscienze dei consumatori che quelle delle imprese. Infatti gli autori avevano già ben chiaro come il web fosse un media molto diverso da quelli tradizionali, in cui le persone potevano avere conversazioni da uomo a uomo. Questo poteva trasformare profondamente il mercato e, di conseguenza, le pratiche commerciali.
La prospettiva society-driven
Oggi quei principi all’epoca più ipotizzati che altro sono diventati la realtà che viviamo ogni giorno. Vediamo dunque come praticare brand activism significhi traslare da una prospettiva marketing-driven a una society-driven. L’azienda non è più un sistema chiuso, ma entra in conversazione con istituzioni, attivisti, altre aziende, politici e quindi ha necessità di esercitare quasi una diplomazia di brand, o corporate diplomacy, definizione spesso proposta come alternativa a brand activism.
Infatti alcuni esperti sottolineano come queste tematiche abbiano a che fare con l’issue management, ossia con il modo in cui l’azienda si confronta con ciò che accade nel mondo. Pensiamo alla pandemia da Covid 19 e a come le imprese hanno per forza dovuto prendere posizione e mostrare il loro impegno per la sicurezza dei dipendenti e dei clienti. Inoltre è auspicabile che l’azienda riesca a intercettare temi caldi del momento che possano c’entrare con la sua attività per esprimere la sua opinione.
Con l’attivismo aziendale, l’impresa non solo si impegna con attività di finanziamento o sensibilizzazione sui temi che le stanno a cuore, ma soprattutto costruisce la sua immagine di “azienda impegnata” con campagne di comunicazione e progetti ad hoc. Si tratta quindi di una nuova visione del brand, una prospettiva inedita su una realtà che non si può più limitare a produrre e a vendere beni o servizi.
Kotler e Sarkar: la naturale evoluzione della corporate social responsibility
Uno dei primi testi sulla materie si intitola “Brand Activism. Form purpose to action” pubblicato nel 2018, di Philip Kotler e Christian Sarkar. I due autori ritengono che l’attivismo di brand sia l’evoluzione della CSR e in effetti le assonanze sono parecchie, tanto da creare una zona grigia in cui si sovrappongono e confondono. Una campagna contro l’utilizzo di plastica, per esempio, è nel campo della responsabilità sociale aziendale, ma è anche una forma di brand activism.
L’attivismo in genere infatti si può definire come “un’attività finalizzata a produrre un cambiamento sociale o politico ed è spesso intesa come sinonimo di protesta o dissenso.”Le strategie di brand activism possono renderlo progressivo o regressivo. Un esempio di quest’ultimo è quello delle pubblicità di sigarette e tabacco che per decenni hanno negato che facesse male, appellandosi anzi a ricerche da loro finanziate che sostenevano il contrario. Dunque si può definire brand activism regressivo quello di quelle aziende che perseguono politiche che vanno contro il bene comune.
Al contrario naturalmente un attivismo di brand progressivo è quello che fa scelte tenendo in conto il bene comune. E’ guidato dalla preoccupazione per problemi più grandi e urgenti che l’intera società si trova ad affrontare. Soprattutto sul lungo periodo scelte di questo tipo vengono premiate dai consumatori, il che massimizza il valore dell’azienda.
Le aree di intervento del brand activism
Gli autori individuano sei aree diverse in cui l’attivismo di brand può concretizzarsi:
- Social Activism: tutto ciò che concerne l’uguaglianza (genere, orientamento sessuale, etnia, età) e i diritti (istruzione);
- Business Activism: tutto ciò che riguarda la governance dell’azienda: retribuzioni di amministratori e dipendenti, sindacati;
- Political Activism: politica, diritto di voto, tutela della democrazia…
- Legal Activism: leggi e politiche che regolano l’attività delle aziende (tasse, leggi sull’occupazione…);
- Economic Activism: politiche salariali e fiscali che incidono sulla disparità di reddito e sulla distribuzione della ricchezza;
- Enviromental Activism: leggi e politiche in materia di tutela ambientale, inquinamento dell’aria e dell’acqua, sfruttamento del suolo.
I rischi del brand activism e il woke-washing
Il brand activism è una medaglia con due facce, una delle due è oscura: un rischio, soprattutto per le aziende che operano in settori problematici (per esempio estremamente inquinanti) è quello di essere percepite come opportuniste. L’azienda potrebbe essere accusata di sfruttare alcune tematiche sociali o ambientali per strategie di marketing di facciata. Così può arrivare più facilmente a target specifici di consumatori, selezionati sulla base dei loro stili di vita e valori, ma senza che ciò corrisponda a un reale impegno.
In altre parole, un inganno, una sostenibilità da semplici slogan. La parola coniata è woke-washing, sulla base del greenwashing. Woke significa “vigile sulle ingiustizie sociali. Un esempio è L’Oreal, che ha tolto dai suoi prodotti diciture come “sbiancante” o “schiarente” in segno di vicinanza alla black community: peccato che in passato avesse terminato la collaborazione con alcuni testimonial che si erano schierati apertamente a favore del movimento Black lives matter.