Al pari del greenwashing e del social washing, il rainbow washing è una tecnica di marketing che “veste” di colori arcobaleno un’azienda che in concreto non fa nulla per i diritti delle persone LGBTQIA+. Ecco in che cosa consiste questa pratica e come evitarla
Il termine rainbow washing rappresenta una delle altre facce della medaglia legate alla diffusione dei temi della sostenibilità sociale ed ambientale, e alla crescente attenzione per i diritti, le pari opportunità, l’accessibilità e l’inclusione. Similmente al greenwashing e al social washing, comportamenti di mera facciata messi in atto dalle aziende per sembrare attente all’ambiente e alle comunità quando invece, in concreto, non sono riscontrabili azioni rilevanti in questi ambiti, il rainbow washing si riferisce ad un falso impegno in favore della comunità LGBTQIA+. Lo scopo, com’è facile immaginare, è quello di aumentare le vendite conquistando ulteriori e specifiche fasce di pubblico senza troppo impegno e senza credere veramente nella causa.
Origine del termine
Il termine rainbow washing è un neologismo piuttosto recente, evoluzione del precedente pinkwashing, parola che si riferisce ad una falsa visione aperta e tollerante nei confronti delle persone gay e, più in generale, delle differenze di genere, con una (presunta) attenzione per i diritti delle donne e per l’emancipazione femminile. Il rainbow washing fa un passo in più allargando la mira al mondo LGBT.
La tecnica del rainbow washing
Quella del rainbow washing è una tecnica di marketing piuttosto semplice: consiste nel creare una veste accattivante per una determinata fascia di pubblico – quello, in questo caso, legato alla bandiera arcobaleno – senza apportare particolari modifiche al prodotto o ai comportamenti aziendali. È qualcosa che si avvicina alla pubblicità ingannevole e che tende ad offuscare la vista del consumatore rispetto alla qualità del prodotto e all’etica aziendale con slogan, messaggi d’impatto, confezioni studiate ad hoc, partnership provvisorie e così via. Un tempo, esporre una bandiera arcobaleno era considerato un atto coraggioso. Oggi rischia di diventare un gesto privo di significato, nonostante ci sia ancora tantissimo da fare per garantire una società davvero inclusiva.
In questo modo l’azienda cerca di ottenere la fiducia sia delle persone che appartengono alla comunità lgbtq+, sia di tanti cittadini attenti ai valori dell’inclusività, dell’uguaglianza, dei pari diritti. Un esempio basilare può essere quello di inserire nella confezione di un prodotto la bandiera arcobaleno, o di creare un’offerta speciale in occasione del pride month, senza che a ciò corrisponda alcuna azione concreta. Solo in Italia, il 75% delle persone dichiara di preferire convintamente brand attenti ai temi dell’inclusione e delle diversità (Diversity brand summit). E’ chiaro dunque che il mercato è molto invitante.
Come riconoscerla
Riconoscere le tecniche di rainbow washing non è sempre immediato. Tuttavia, oggi i consumatori sono molto più attenti rispetto al passato e soprattutto non sono propensi a sorvolare su simili comportamenti messi in atto da un’azienda. Vale la pena correre il rischio? Con un po’ di attenzione si può distinguere un’azienda gay friendly da una società che sfrutta questa tendenza per incrementare le vendite. Prima di tutto, sapendo che giugno è il mese del pride, si può facilmente notare se un brand prende posizione solamente nel mese di giugno. Con un’ulteriore indagine è possibile scoprire se l’azienda che si dichiara inclusiva lo è veramente con i dipendenti e i collaboratori.
Altre volte il confine è più sfumato, perché tutti corriamo il rischio di utilizzare la bandiera arcobaleno e gli slogan legati all’inclusività come un brand. Diffondere questi simboli può essere utile, ma quello che fa davvero la differenza è un impegno concreto per rendere la società più aperta e sicura per tutte le persone, indipendentemente dal genere e dall’orientamento sessuale. C’è poi una questione di misura: esistono ormai, soprattutto negli Stati Uniti, vetrine arcobaleno (fisiche e virtuali) con prodotti di ogni genere trasformati in occasione del pride month, dalle tende da doccia ai posacenere. E’ chiaro che in queste circostanze l’obiettivo è un altro, rispetto a quello di rendere migliore la società.
Esempi di rainbow washing
Sono molte le aziende ad essere scivolate in questo tranello. Nomi importanti come Walmart e Nike hanno adottato la bandiera arcobaleno senza mettere in pratica alcuna azione concreta in favore della comunità LGBTQIA+. Goldman Sachs, che a giugno non ha esitato di esporre bandiere arcobaleno in ogni dove, ha dovuto affrontare un pesante iter legale per discriminazione nei confronti delle persone gay in seguito alle dichiarazioni di un ex dirigente omosessuale, escluso da una importante riunione perché “sembrava troppo gay”. Comunque, per cadere nel rainbow washing, basta molto meno: pensiamo al panino gayfriendly di Mark&Spencer, dichiarato tale a caso, senza alcuna connessione con la lotta per i diritti delle persone con diversi orientamenti sessuali.
Ancora più problematici i casi di aziende che si sono esposte in favore dei diritti e dell’inclusività, finanziando al contempo politici e realtà dichiaratamente anti LBGT. Inoltre, molte aziende producono all’interno di Paesi dove l’omofobia è dilagante e dichiarare di essere gay è illegale. La coerenza è il primo elemento da preservare per essere credibili e non perdere la fiducia degli utenti.
Un’azione di contrasto al rainbow washing è stata messa in atto dal movimento #WhoMadeMyPridemerch, fondato da Izzy McLeod che, tramite il suo profilo Instagram, rende visibili i brand che mettono in atto simili pratiche: un buon punto di partenza per scoprire chi crede davvero nella causa e chi è interessato solo al proprio profitto.