«Senza informazione dignitosa, civiltà e conciliazione, le società risolvono le loro differenze ricorrendo alla coercizione»: The Economist non usa giri di parole e punta il dito contro i social media, in particolare Facebook, rei di “diffondere veleno, tristezza e indignazione”, corrodendo la valutazione degli elettori e rendendo il dibattito politico sempre più brutale dalla Spagna al Sud Africa (Do social media threaten democracy?). Read it in English.
La severa conclusione si basa su dati di fatto e numeri precisi: nel periodo compreso tra gennaio 2015 e agosto 2017, ossia prima, durante e dopo le elezioni che hanno portato Donald Trump a sedersi nello studio ovale della Casa Bianca, su Twitter sono stati individuati 36.746 account di disinformazione di matrice russa e su YouTube sono stati identificati 1.108 video collegati al medesimo giro. Su Facebook circa 62 milioni di account sono falsi e dietro buona parte di questi si nascondono i servizi di propaganda russa, col risultato che, nel lasso di tempo preso in esame, circa 146 milioni sono stati esposti ai post creati per diffondere fake news (Facebook rivela: gli account falsi o duplicati sono 270 milioni).
Così, se un tempo i social si professavano come forza promotrice di una politica illuminata, in grado di supportare le persone nel conoscere la realtà dei fatti e costruire una società libera dal pregiudizio e lontana dalla corruzione, oggi si rivelano come “un meccanismo per attirare e manipolare l’attenzione”. Insomma un pericolo sul modello prospettato dal filosofo tedesco Jürgen Habermas, che suggeriva come i social media possano destabilizzare i Paesi autoritari ma, allo stesso modo e allo stesso tempo, anche erodere la sfera pubblica delle democrazie, quella che fino a poco fa era riservata alla dialettica politica.
Ma cosa hanno di così pericoloso i social che non appartenga già alla televisione e alla radio? La profilazione dell’utente. Secondo The Economist non sono certo i social ad avere causato la grave crisi economica del 2007 e la profonda spaccatura tra ricchi e poveri che ne è conseguita. Ma loro è la responsabilità di avere alimentato la rabbia popolare e la cultura del disprezzo.
A differenza di radio e tv, la forza dei social – a mio avviso ancora non compresa appieno nella sua portata – è la conoscenza dell’utente, delle sue abitudini, dei suoi gusti, di cosa guarda, quando e come. Il che implica la possibilità di prevederne le (re)azioni e, dunque, di stuzzicarlo e influenzarlo con contenuti e immagini ad hoc. Le persone vengono risucchiate in un gorgo di gossip e indignazione, che tende a screditare i compromessi necessari in democrazia, a favore di posizioni rigide, che inaspriscono lo scontro. In Myanmar, dove Facebook è la principale fonte di notizie per molti, il social ha acuito l’odio verso i Rohingya, vittime della pulizia etnica.
Tutto dunque è perduto? Ancora no: un recente sondaggio ha rivelato che solo il 37% degli americani si fida di ciò che legge sulle piattaforme sociali. È la metà di giornali e riviste. E nel tempo queste percentuali sono destinate a diminuire ulteriormente. Nell’attesa, però, occorre intervenire. La strada più logica è che i social (o leggi che li obblighino a) rendano chiare le fonti di provenienza dei post e adattino i loro algoritmi per penalizzare il clickbait da disinformazione. Insomma una soluzione sempre valida: colpisci il portafoglio!
Quali social usate e cosa ne pensate? Inviate i vostri commenti a @agostinellialdo
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