Aldo Agostinelli

Negozi reali che chiudono, in-store dell’e-commerce che aprono: la pressione esercitata dal commercio digitale su quello fisico si fa sempre più pesante ma se è vero che il primo è cresciuto fino a rappresentare il 17,5% della spesa al dettaglio, è altrettanto vero che dei negozi su strada non si può fare a meno. Ad oggi rappresentano ancora il 70% delle vendite. E non è un caso che il dettagliante più famoso del web, Amazon, abbia provveduto ad aprire sedi fisiche per la fornitura dei propri prodotti. Leggi l’articolo in Inglese.

Enders Analysis ha proceduto a fare il punto della situazione del retailing, prendendo in analisi gli Stati Uniti (“Retailing in the material world”). Qui la definizione per descrivere il trend, che ha visto nel 2017 ben 54 milioni di metri quadrati di spazi commerciali chiusi e ne prevede la chiusura di un altro 20-25% entro il 2022, è “’apocalisse al dettaglio’ (Major Wall Street Firm Expects 25% of U.S. Malls to Close by 2022). Una formula che rende bene l’idea delle ansie che circolano nel settore.

Ma la situazione è realmente così grave? La risposta è obbligatoriamente ambivalente: sì e no. Nonostante l’ascesa dell’e-commerce con conseguenti saracinesche abbassate, nel 2017 le vendite al dettaglio fisiche sono cresciute del 2,5%.

Il problema, dunque, non è tanto l’on-line quanto che gli Stati Uniti sono un mercato over-retail. Rispetto all’Europa, fino ad ora il commercio su strada Usa ha goduto di immobili più economici, bolle di consumo e livelli più alti di spesa al dettaglio pro capite. E poi c’è il debito che, seppure necessario per espandere le catene dei negozi quando le cose vanno bene, in caso di flessione del mercato può diventare fatale. Senza contare una certa attitudine all’omogeneità degli store, le grandi catene: quando sono superate per tecnologia e immagine, precipitano tutte insieme. Come Toys R Us (Il colosso dei giocattoli Toys ‘R’ Us chiude i negozi negli Stati Uniti: 33mila posti a rischio).

Ma nessuno ha interesse affinché la vendita al dettaglio in-store muoia, semplicemente perché è un elemento importante per l’economia che costituisce circa un terzo del consumo domestico delle famiglie, che a sua volta rappresenta il 60-70% del Pil. Oltre ad essere un indicatore di benessere socioeconomica di una città.

L’esperienza dell’acquisto reale non è paragonabile in nessun modo a quella virtuale e per i consumatori è ancora la favorita. Ma la differenza tra uno store di calce e mattoni e uno di pixel (vedi Amazon) è tutta qui: i retailer digitali puntano a vendere ai propri clienti nel modo più efficace. Per cui non hanno nessun problema a sperimentare formule miste di vendita, che partano dal web per essere perfezionate sulla strada.

È quindi ora che i negozi e le catene fisiche si sveglino e approfittino della tecnologia per migliorare costi e prestazioni e coniugare on e off line nel percorso di acquisto. Perché in realtà hanno un vantaggio: possono avvalersi di una visione integrale del comportamento offline e online del cliente. Dunque si tratta di sfruttare adeguatamente l’Rfid, la realtà virtuale e la geolocalizzazione mobile – che offre informazioni migliori di quelle fornite online dai cookie, in quanto traccia i movimenti del cliente una volta uscito dal negozio. Ma soprattutto utilizzare l’adozione di soluzioni mobile per raccogliere dati da analizzare e targettizzare al fine di campagne marketing e percorsi di acquisto online/offline mirati ed efficaci. Lo scorso anno la catena di pub britannica Wetherspoons ha rilasciato un’app che consente agli avventori di ordinare e pagare tramite smartphone, restando comodamente seduti al proprio tavolo. Niente code e attese inutili per il cliente, una buona massa di dati sulle abitudini di consumo per il marketer (Wetherspoon’s ‘Order & Pay’ app is the future).

La tecnologia è il quindi il problema ma anche la soluzione della sopravvivenza dei retailer.

Cosa ne pensate della pressione del retailing online su quello offline? Tweettate i vostri commenti a @agostinellialdo.

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Aldo Agostinelli