Negli anni ’50 il boom economico spinse fortemente l’industria automobilistica italiana. Ora serve un cloud pubblico per far ripartire il ciclo.
Allora merci e persone iniziarono a spostarsi con mezzi privati, cambiando il concetto di mobilità stessa. Fu così che nacque la necessità di nuove infrastrutture viarie, le autostrade, in grado di mettere in collegamento tra loro le città e le imprese, le aziende e le industrie con i lavoratori che vi prestavano la loro opera. Le tasse dei cittadini furono convertite (almeno in parte), per sovvenzionare le reti della nuova percorribilità e supportare lo slancio economico del Paese.
Le autostrade divennero i nuovi grandi hub della viabilità e dell’economia.
Oggi, però, l’economia non corre più in superstrada, viaggia nel digitale.
I grandi servizi digitali, come AWS (Amazon Web Services) per esempio, stanno facendo ricche le aziende americane. Da noi non è così: ancora nel 2019, per svolgere le proprie attività le PMI utilizzano troppo spesso vecchi sistemi ormai superati. Il cloud, poi, non ha ancora preso piede e, ad esclusione di piccole porzioni della filiera produttiva, non è quasi mai internalizzato. Il rischio grave è che le nostre aziende vengano superate da concorrenti stranieri, magari meno forti di noi ma sicuramente più tecnologicamente competitivi, come l’Estonia.
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È evidente che oggi occorrono nuove “autostrade” per lo sviluppo economico del Paese. E assolutamente necessario garantire alla piccola e media impresa, che compone il vero capitale economico dell’Italia, un primo accesso alla tecnologia più semplice, più immediato e più forte, fornendole gli strumenti per competere nell’economia globalizzata.
La soluzione al problema è un cloud made in Italy, ossia un cloud pubblico per le imprese. Una struttura informatica messa a punto e gestita dai migliori atenei tecnici italiani, che sia in grado di supportare lo sviluppo dell’imprenditorialità nostrana. E di permetterle di ricominciare a correre.
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