Aldo Agostinelli

Accade spesso che, quando si parla con un amico o un conoscente del problema della privacy in rete, ci si senta rispondere: <Tanto io non ho nulla da nascondere!>. Segno di come la questione della riservatezza sia di frequente sottovalutata o male interpretata.

In generale, infatti, qualunque servizio o applicazione gratuiti seguono la logica del do ut des: l’utilizzo a costo zero viene ricambiato dai nostri dati che, tutti insieme, costituiscono un grande valore per le aziende, che possono servirsene per sviluppare campagne marketing o anche prodotti mirati ad un certo target di utenti piuttosto che a un altro.

Senza tralasciare il fatto che, talvolta, l’utente che naviga, seleziona, digita messaggi, invia foto e video all’amico, di fatto funge da banco di prova per mettere a punto software e funzionalità.

Prendiamo Allo, per esempio: la nuova app di messaggistica, da poco lanciata da Google, propone una funzione di ricerca in-chat, servendosi dell’intelligenza artificiale applicata al personal messaging.

Come già con altri prodotti di Big G, utilizzando Allo si contribuisce quindi ad addestrare gli algoritmi di apprendimento automatico di Google e, al contempo, si cede un po’ della propria privacy.

Ed è proprio questa che, in linea teorica, secondo quanto riportato giorni fa dalla rivista americana Pc Magazine (Google Allo’s Privacy Flaws: Concerning But Not a Dealbreaker), potrebbe correre dei rischi.

La polemica nasce dal fatto che l’applicazione non adotta particolari misure a protezione di quanto pubblicato nei messaggi da chi lo utilizza. In pratica i messaggi sono in chiaro di default, a meno che non si scelga di utilizzare la “modalità in incognito”, che crittografa i messaggi e disabilita anche Google Assistant. Senza l’assistente virtuale, però, Allo è un comune sistema di messaggistica come Hangouts: cui prodest?

Il ragionamento che viene fatto è che, sebbene i server del gigante della ricerca siano tra i più protetti e impenetrabili al mondo, in caso di violazione tutti i dati che Big G ha raccolto e memorizzato potrebbero essere sottratti.

Lo stesso dicasi nel caso in cui Google venga citato in giudizio in Tribunale: tutte le informazioni pubblicate su Allo – da dove si era in un certo giorno alla foto inviata ad un amico – costituirebbero prove da utilizzare con gli stessi utenti.

C’è da dire che, per la gran parte degli esperti di sicurezza informatica, un furto di dati a Mountain View è uno scenario inverosimile.

Appare insomma alquanto irrealistica, l’ipotesi che agli  utenti di Google possa accadere quanto successo recentemente a quelli di altri competitor.

Il riferimento è ai 500 milioni di utenti di Yahoo che, secondo quanto riportato anche dal New York Times, alcuni giorni fa hanno scoperto di essere state vittime nel 2014 del furto dei propri nomi, indirizzi e-mail, numeri di telefono, date di nascita, domande e risposte di sicurezza e password.  Un furto ingente – si dice il più grande della storia sino ad oggi – di cui la testata americana Motherboard aveva dato conto 50 giorni prima dell’ammissione ufficiale di Yahoo.

In questo come in altri casi simili, però, a fare la differenza tra Google e gli altri, sono le centinaia di milioni di dollari investiti in misure di sicurezza evolute, in grado di bloccare un eventuale attacco informatico.

La questione privacy tuttavia resta aperta. Quanto e cosa  siamo disposti  a cedere in cambio dei servizi gratuiti?

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Aldo Agostinelli