Aldo Agostinelli

La questione della Sharing Economy: la ‘condivisione’ non è la base, eppure questa è la posizione social che molte tech companies dirompenti sul mercato promuovono nelle proprie strategie di marketing.

Uber, Airbnb, Deliveroo. Alcune delle più importanti ed innovative aziende del mondo sono parte attiva della cosiddetta sharing economy. Il termine ‘sharing economy’ evoca visioni e concetti di collaborazione, lealtà e fiducia: sembrerebbe che nel 2016 le persone siano desiderose di accogliere estranei nelle proprie case e nelle proprie auto, monetizzando allo stesso tempo le proprie sottoutilizzate risorse personali.

Tuttavia, mentre aziende come Airbnb sono pronte a considerare e pubblicizzare se stesse come community di sharers, la sharing economy in realtà non si basa affatto sulla condivisione. Questa è solo una delle percezioni che si hanno di questa industria.

Quella parte della ‘sharing economy’ basata sullo sfruttamento, e conseguente monetizzazione, di proprietà sottoutilizzate (una camera in più che è sempre vuota o una macchina che altrimenti non si userebbe mai) è in totale regressione. Il mercato è ora pieno di padroni di casa di Airbnb che possiedono molteplici proprietà a disposizione sulla piattaforma e di conducenti e autisti che comprano auto nuove per usarle come veicoli per Uber. Ed è assolutamente poco chiaro quale sia la componente “sharing” della app di ristorazione con consegna a domicilio, Deliveroo, spesso citata come una best practice parlando di casi di successo della industry (a meno che non consideriamo come ‘condivisione’ tutti i fattorini che consegnano cibo sulle proprie bici o scooter!).

Infatti, la maggior parte delle aziende che fanno parte della sharing economy in realtà non hanno nulla a che fare con la vera ‘condivisione’. La mappa interattiva sulla sharing economy di Just Park  mostra che assumere qualcuno è la seconda caratteristica più popolare della sharing economy. Ma in realtà, la condivisione di competenze o di lavoro non è reale condivisione: semplicemente si ottiene l’aiuto di una donna delle pulizie, che paghiamo, attraverso una app.

Più che la condivisione, il fattore comune di tutte queste aziende consiste nell’essere un marketplace con transazioni peer-to-peer attivate dalla tecnologia mobile e da grandi brand. Questa struttura permette loro di tagliare i costi della tradizionale economia creando una struttura aziendale più snella. In ogni caso, una struttura aziendale più grande ha sempre un ruolo fondamentale da giocare perché le persone non si fidano le une delle altre. Si fidano invece della piattaforma e contano sul fatto che essa intervenga nel caso qualcosa vada storto. Al cuore di tutto, quindi, non sta la fiducia e la comunità, ma il prezzo e la convenienza.

Queste considerazioni dovrebbero far riflettere su come le aziende della sharing economy posizionano se stesse. Più che focalizzarsi sulla condivisione, i business di ‘sharing’ realmente di successo dovrebbero – e spesso lo fanno – enfatizzare la loro facilità di utilizzo e il basso costo. I player più di successo di questo mercato, sanno bene tutto questo: Uber e Deliveroo hanno da sempre messo la convenienza al centro del proprio brand.

D’altro canto, aziende come Airbnb, fanno dell’essere una community, il centro della propria brand proposition. Cosa completamente insensata. Studi di PWC e The Harvard Business Review hanno evidenziato che i consumatori considerano elemento chiave della sharing economy il rendere la vita più facile, efficiente e conveniente. Una considerazione questa che potrebbe portare tutti i brand a ripensare il proprio nome di industry inserendo il tag della ‘convenienza’.

Eppure l’industria nel suo complesso è più che felice di essere raggruppata sotto l’etichetta di ‘sharing economy’. Ma perché? Forse per evitare di esporre inavvertitamente il proprio lato oscuro. Il settore, infatti, è continuamente accusato di trarre profitto sottopagando i lavoratori e scambiando posti di lavoro sicuri con lavori temporanei e imprevedibili. Se i consumatori realizzassero che la loro cena on-demand arriva accompagnata da una dose di ingiustizia sociale, probabilmente ci penserebbero due volte a utilizzare ancora il servizio.

Cosa ne dovrebbe derivare per i marketers? Le ‘sharing companies’ che posizionano alla loro base convenienza e bassi costi fanno di certo meglio di quelle basate sull’essere una community. Tuttavia, la sharing economy è terreno fertile per gli scandali, quindi i brand farebbero bene a prestare attenzione ad associare la convenienza per i consumatori con il trattamento ambiguo dei dipendenti. Un filo del rasoio pericoloso su cui camminare per i brand per poter funzionare bene.

Cosa ne pensate? I brand della sharing economy dovrebbero continuare a giocarsi la carta della community? O dovrebbero concentrarsi sul freddo e duro profitto? Twittatemi i vostri commenti @AgostinelliAldo.

 

(Immagine di Hofnungsschimmer, Creative Commons License.)

Aldo Agostinelli