Aldo Agostinelli

Sharing economy cosè e perché e importante

La sharing economy è un modello economico che non punta alla vendita di prodotti per uso personale ma piuttosto di prodotto o servizi in affitto per il tempo necessario. Per esempio, il servizio di auto come Uber e Lyft oppure gli scooter sharing come eCooltra o Mimoto sono progetti di mobilità che non prevedono l’acquisto del mezzo ma solo il suo noleggio temporaneo tramite app, giusto il tempo di percorrere la tratta interessata. E’ importante perché potrebbe ridurre i consumi e aiutare a rispettare l’ambiente producendo meno beni e distrubuendoli in modo più efficiente. Ma non tutto funziona ancora alla perfezione.

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Sharing economy poco sharing

La sharing economy è sempre più “economy” vecchio stampo, seppur con una veste nuova e digital, e sempre meno “sharing”. La fine dell’utopia che immaginava gli utenti imprenditori di se stessi con l’uso dei propri mezzi (case, auto ecc) ha una data: il 2018. La indica chiaramente il sociologo Evgeny Morozov sul Guardian. Secondo lo studioso il miraggio prospettato dal tecno-populismo, che racconta di un’economia informale e decentralizzata, è definitivamente fallita.

La mia idea è chiara e la ripeto: alcune delle aziende che dovevano “aprire il mercato” l’hanno in realtà chiuso, trasformandosi in nuovi monopoli, a volte con sede in paradisi fiscali. E allora servono regole e una web tax forte.

Dalla politica risposte mancate

Le cause sono da attribuirsi in primis alla politica, che non ha saputo o non ha voluto tutelare le piattaforme locali dalle leggi brutali della concorrenza, fornendo loro dei finanziamenti pubblici. Sostenendo le iniziative digitali di sharing e sottraendole alla longa mano dei grandi capitali, oggi i comuni avrebbero potuto contare su piattaforme in grado di supplire alle carenze pubbliche in fatto di trasporti, servizi, infrastrutture e turismo.

Ma ciò non è avvenuto. E quanto di buono era alla base della sharing economy (in particolare la reciprocità dei vantaggi), come il fatto che se in casa hai una stanza in più, puoi guadagnarci qualche soldo affittandola a chi non può permettersi una camera in albergo, è andato perduto. 

Il car-sharing, i servizi di consegna a domicilio, il bike-sharing e il flat-sharing sono tutti esplosi, grazie a enormi iniezioni di capitali, in gran parte provenienti da fondi sovrani. E da piccole start-up si sono trasformate in colossi da miliardi di dollari che, di fatto, dominano il mercato, lo accentrano.

Il tutto sfruttando quelle stesse tecnologie – l’ubiquità degli smartphone, le app, la rete – che avevano inizialmente permesso la rivoluzione decentralizzante (From Airbnb to city bikes, the ‘sharing economy’ has been seized by big money).

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La rivoluzione tradita

Come spiega Andrea Daniele Signorelli, che dalle pagine di Wired ha ripreso la questione in Italia, sebbene le promesse della sharing economy si poggiassero su solide basi, il sogno è durato poco.

La trasformazione delle città in grandi comunità dove si condividono mezzi e tempo libero, guadagnando qualche soldo extra ospitando sul divano un turista di passaggio, consegnando nel quartiere il sushi del ristorante sotto casa o sbrigando qualche lavoretto per i vicini, da principe a rospo si è tramutata in un mega business per pochi, grandi colossi, per la gioia delle tasche di qualche venture capitalist dagli introiti miliardari. 

Alcuni esempi: dal dare un passaggio remunerato il giusto, si è arrivati a Uber, alla fine uguale a un comune servizio di taxi (lo stesso che volevano democratizzare!), ma in cui gli autisti sono driver professionisti non tutelati, che saranno dismessi senza tante cerimonie, il giorno in cui la company opterà per le auto a guida autonoma; giovani in cerca di un po’ di argent de poche sono divenuti rider a tempo pieno per Deliveroo o Glovo, pagati a cottimo, sottoposti alle insopportabili leggi del ranking ed estromettibili dal servizio in ogni momento. Senza contare uno dei casi più eclatanti: Airbnb.

Quella che doveva rappresentare la risposta dal basso al “caro hotel”, è diventato presto un vantaggio solo per quanti possiedono diversi appartamenti e preferiscono affittare ai turisti, col conseguente aumento dei prezzi degli affitti a lungo termine. Tra un po’, poi, evolverà ancora in una sorta di catena alberghiera: in collaborazione con Brookfield Property Partners, una delle più grandi agenzie immobiliari al mondo, Airbnb si accinge a costruire case proprie (Ci stiamo svegliando dal sogno della sharing economy?).

Salvare il salvabile

Tornare indietro è impensabile al momento. Ma non tutto è perduto. Secondo Signorelli esistono realtà di sharing che mantengono lo spirito originario e cercano di portarlo avanti – CouchSurfing, BlaBlaCar, Là Zooz. Mentre per Alessandro Bottoni, la sharing economy, pur con i suoi effetti negativi, ha permesso di far passare l’idea della condivisione che, a tutt’oggi, consente di fruire di Linux e LibreOffice, e di contenuti audiovideo gratuiti che rispondono ad ogni necessità di sapere.
Come a dire che una sharing economy sana ancora c’è: sta a noi dismettere i panni dell’utente bue e saperla scegliere per utilizzarla al meglio.

E allora che fare? Regolare e mettere una web tax che colpisca le grandi aziende che parlano di condivisione ma poi piazzano la propria sede ai Caraibi o in Lussemburgo per eludere il pagamento delle tasse. Servono norme, e servono adesso.

Che idea vi siete fatti della sharing economy? Tweettate i vostri commenti a @agostinellialdo.

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Aldo Agostinelli