Aldo Agostinelli

Aumenta la spesa del programmatic advertising ma diminuisce progressivamente il numero degli inserzionisti che vi ricorrono. A riportare i dati del fenomeno, in atto negli Stati Uniti, è lo studio “Consumer Advertising – Maximizing Impact” condotto da MediaRadar.

Il documento sottolinea come, a fronte di una crescita della spesa di oltre il 72% nell’ultimo triennio, di contro gli advertiser sono calati del 12% anno su anno. Read it in English

Così, se da un lato è palese che, grazie agli acquisti automatizzati e alle transazioni più efficienti, a tutt’oggi la programmazione è la spina dorsale della pubblicità online, dall’altro è pure evidente che si sia di fronte a un problema che potremmo riassumere in una parola: sfiducia.

Secondo il report, lo scoglio principale che sta causando la dispersione di advertiser è il timore di mettere a repentaglio la sicurezza e la credibilità del proprio brand. In sostanza gli inserzionisti temono che l’ecosistema programmato, non sempre trasparente, possa produrre più danni che benefici al proprio marchio. Soprattutto per quanto riguarda l’accostamento ad annunci dai contenuti inappropriati.

La sfida che si pone è dunque quella del controllo di qualità, in particolare nelle iper popolate e popolose piattaforme tipo YouTube e Facebook (Report: Native ad buying surges 74%, programmatic slips 12%)

Ed è proprio sul versante della sicurezza a tutela degli inserzionisti che i sistemi di programmatic adv si stanno evolvendo. Numerose tecnologie esistono già e sono state integrate nelle piattaforme. Una di queste è un sistema che consente di stilare white list e black list dei siti in cui far apparire gli annunci: i primi sono raccomandabili, i secondi no e da evitare. Come pure esistono filtri da impostare al momento dell’acquisto di spazi. Il punto è che, molto semplicemente, questi mezzi spesso non vengono utilizzati dagli inserzionisti o dagli stessi venditori.

La faccenda diventa così una questione di cultura e comunicazione venditore-cliente: se consideriamo che il programmatic adv è una forma di mediazione ancora giovane e che è esplosa prepotentemente in tempi rapidi, è comprensibile che sia ancora da recepire e modulare sulla base di necessità ed esigenze. Prova ne sia che nel 2013 solo il 7% dei budget era stato destinato alla programmazione, mentre lo scorso anno è schizzato al 50%. E, nonostante timori e ritrosie, quest’anno ogni 5 dollari investiti in pubblicità, 4 sono spesi per il programmatic. Però il programmatic su scambi aperti sta diminuendo (44%), mentre quello diretto (56%) sta crescendo velocemente. Ciò dimostra che gli advertiser sono consci del valore della programmazione, semmai va messo a punto il sistema. (Despite Challenges, Programmatic Is Evolving To Deliver On Brand Safety).

Numerose piattaforme sono già all’opera per invertire la rotta: hanno aumentato gli investimenti per l’implementazione di tecnologie basate sul machine learning e l’intelligenza artificiale, in modo da contrastare efficacemente, quando non anche prevenire, i contenuti offensivi e lesivi della reputazione dei marchi. Non resta che infondere fiducia e tranquillizzare gli inserzionisti.

Qual è la vostra opinione sul programmatic adv? Ricorrete agli scambi aperti o al sistema diretto? Tweettate i vostri commenti @agostinellialdo.

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Aldo Agostinelli
Aldo Agostinelli è il Chief Sales Marketing Officer di Telepass. In questo blog scrive di innovazione, big data, AI, social media e di tutto ciò che riguarda la tecnologia e il digitale.