Da qualche tempo l’offerta di contenuti multimediali sembra aver imboccato due strade parallele: con abbonamento a pagamento ma senza pubblicità; completamente gratuita per l’utente ma infarcita di advertising.
Due modelli di business palesemente diversi e che poggiano su assunti differenti. Un esempio del primo tipo (senza Adv) è la costellazione composta da Netflix, Amazon Prime Video e, più recentemente, Apple. L’azienda di Cupertino lo scorso marzo ha presentato Apple TV+, una piattaforma che propone programmi originali, come film, documentari e serial tv, realizzati in partnership con nomi ultra popolari dello star system cinetelevisivo, del calibro di Steven Spielberg e Oprah Winfrey. Il servizio è on demand e se ne può usufruire direttamente dall’app “Apple TV”. La app, che verrà rilasciata a maggio, è utilizzabile tramite iPhone, iPad, Mac, smart TV e dispositivi per lo streaming. Per gli utenti sarà disponibile a maggio e consentirà loro di abbonarsi ai canali preferiti, scegliendoli tra gli Apple TV Channels, oltre a celebri canali da tutto il mondo come Hbo, Cbs e Mtv Hits. La app apprende le abitudini dell’utente e propone contenuti in linea con i suoi gusti. Il tutto, come dicevo, senza la benché minima traccia di pubblicità (Apple event 2019: Apple Card, TV Plus, News Plus, Arcade and everything just announced).
Apro una parentesi: il 28% dei consumi di tutti i media sul pianeta sarà mobile entro il 2020 (nel 2011 era del 5%). E con la diffusione del 5G è destinato a crescere anche di più. Va da sé che anche il tempo speso incollati al display dello smartphone, a seguire contenuti audiovideo, stia aumentando: nel 2018 era mediamente di 470 minuti al giorno, tra due anni sarà di 492 minuti. Una app per lo streaming come quella di Apple risulta quindi quantomeno strategica (Mobile internet to reach 28% of media use in 2020).
La TV tradizionale detronizzata
La tv ha perso lo scettro di grande, insostituibile apparecchio casalingo per l’intrattenimento. E, come spiega Aldo Grasso, anche il telespettatore ha subito una mutazione, perché “oggi virtualmente chiamato a dare vita a un’eterogeneità di pratiche e modalità di visione differenti”. Una multivisione appunto, che si snoda tra una molteplicità di dispositivi. Così Big Tech come Apple e Amazon, si stanno evolvendo in media company, con Netflix che s’impone allargando il suo spazio digitale (La tv ai tempi di Apple e Google somiglia sempre più a una biblioteca).
Quanto a YouTube, la gratuità dell’accesso è uno dei fattori che ha portato Google a ritirarlo dalla competizione, per la produzione di serie e film. Produrre costa molto e i suoi frequentatori non sono abituati e/o disposti a pagare per guardare. Meglio dunque concentrarsi su musica e gaming, che lo scorso anno gli hanno fruttato 15 miliardi di dollari di pubblicità (YouTube Bows Out of Hollywood Arms Race With Netflix and Amazon).
Il gratuito ha il suo (grande) pubblico
Sul versante del gratuito per l’utente e “libera
tutti” per la pubblicità, troviamo Tubi. Disponibile su app e web, la piattaforma è supportata al 100% dalla
pubblicità. Prima, durante e dopo i programmi. Non c’è alcuna versione premium
né carta di credito che possa evitare gli spot. Ma siccome non sono sciocchi e
gli utenti li vogliono attirare e non far scappare, le clip adv sono brevi e,
alla fine, il totale della pubblicità visto per contenuto è al di sotto dei due
minuti. Tubi non produce programmi originali ma propone il lavoro di altri.
Secondo la
società, al momento detiene una libreria superiore ai 50mila titoli e accordi con
Lionsgate, Paramount, MGM e Starz. Sia come sia, la formula funziona. Tanto
che, per il 2019, la company ha raddoppiato gli investimenti per le licenze di
film e serie televisive. L’obiettivo è offrire ai suoi utenti il 99% dei
contenuti disponibili sul mercato (Tubi: Everything you need to know about the free movie and TV
streaming service) e a breve punta a farlo anche fuori dagli Stati Uniti, specie sui
grandi mercati anglofoni come India e Africa orientale.
Nota dolente: non correte a installare
l’applicazione di Tubi sullo smartphone perché, causa adeguamento al GDPR, in Italia non è ancora possibile
utilizzarla.
Non esiste un solo modo di fare business e questa è un’ovvietà. Ma la prima formula porta ad alcune domande. Nel caso dell’entertainment adv free, infatti, i brand restano esclusi. Se il modello dovesse diffondersi e guadagnare spazi consistenti, che impatto avrebbe sulle aziende e il comparto pubblicitario? E sul fronte editori e produttori quanto il meccanismo risulterebbe economicamente soddisfacente? A naso, ci troviamo in procinto di nuove sfide.
Preferite i contenuti gratuiti con pubblicità o quelli a pagamento ma adv free? Tweettate i vostri commenti a @agostinellialdo.
Per scoprire di più sul mondo digitale, leggete il mio nuovo libro: “People Are Media”
Se ti è piaciuto questo post, leggi anche “Tutti contro Google e Facebook: basta duopolio dell’adv”